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“Ma che diavolo sto leggendo?!?!” — Il delirio inquietante di Shibatarian

Ci sono manga che ti conquistano per la trama, altri per i disegni, altri ancora per i personaggi. E poi c’è Shibatarian, che mi ha completamente disorientato e ipnotizzato con la sua follia pura e disturbante. Non è semplicemente un manga horror. È un'esperienza straniante, un viaggio dentro l’assurdo, che ti lascia addosso quella sensazione sgradevole e irresistibile di essere osservato… da qualcuno che ha il tuo stesso volto.

Un inizio (apparentemente) innocente

Tutto comincia sotto un ciliegio in fiore. Sembra quasi l’apertura di una storia sentimentale o di una commedia scolastica, e invece... il tono si spezza subito: un ragazzo, Shibata, è sepolto fino al collo nella terra. Vittima di uno scherzo crudele. Viene salvato da Hajime Sato, e così nasce questa strana amicizia fatta di film horror, chiacchiere da adolescenti e promesse sul futuro. Promesse che sembrano ingenue, ma che — scoprirò poi — saranno l’innesco di qualcosa di molto più oscuro.

Il ritorno dell’amico che non dovrebbe esistere

Anni dopo, Sato ha ormai messo da parte quella fase della sua vita. Ha una ragazza, una vita normale. Ma si sa, la normalità nei manga come questo è solo la quiete prima del disastro. Ed ecco che Shibata torna, o meglio… tornano. Dappertutto. In tutte le forme. In tutte le salse. Un’orda di sosia inquietanti con un solo scopo: fare a pezzi Sato e chiunque gli voglia bene.

E qui il manga esplode in tutta la sua assurdità. Shibata diventa un’idea, un virus, un incubo collettivo. Ogni clone ha tratti diversi: alcuni sembrano animali, altri sono esseri umani “occupati”, altri ancora si trasformano in ammassi mostruosi che sembrano usciti da un film di Cronenberg. Ogni tavola gronda follia, ma senza mai perdere il filo: tutto ruota attorno a quello sguardo vuoto e disturbante che accomuna ogni Shibata. Quel mezzo sorriso che sembra sapere qualcosa che tu non sai.

La caccia alla verità

A quel punto, come lettore e come essere umano curioso, devi sapere. Sato inizia a indagare sul passato, su chi fosse davvero Shibata, e scopre che… nessuno sembra ricordarlo. Come se fosse sempre stato un’ombra. Una creazione. O peggio, qualcosa che non dovrebbe esistere.

Questa parte del manga è forse la mia preferita. Non perché dia risposte (non aspettatevi soluzioni semplici), ma perché crea una tensione psicologica spaventosa. Shibatarian diventa quasi metafisico, sfiorando il paranormale, ma mantenendo sempre un piede ben piantato nel thriller più puro.

Tra tavole nere e guizzi di luce

Parliamo un attimo del comparto visivo, perché anche qui Katsuya Iwamuro spiazza. Lo stile di disegno è cupissimo. Nero ovunque, ombre, volti spezzati dalla luce o inghiottiti dall’oscurità. Ma poi, bam!, ti piazza una tavola luminosa, piena di dettagli, quasi serena. Ed è proprio lì che capisci quanto questo manga giochi col tuo cervello. Ti illude, ti tranquillizza… e poi ti toglie il tappeto da sotto i piedi.

L’inquietudine è il vero protagonista

Shibatarian non fa paura nel senso classico del termine. Non ci sono jumpscare o mostri da brividi. Ma ti infila dentro una sensazione viscida e disturbante che non ti molla più. Ti fa sentire costantemente fuori posto. Come se qualcosa fosse sbagliato, ma non riuscissi a capire cosa. E più leggi, più capisci che questa inquietudine è il motore di tutto.

Considerazioni finali (e una raccomandazione)

Se sei stanco dei soliti manga horror, se vuoi qualcosa che ti lasci confuso, turbato e con un sacco di domande… Shibatarian è una botta in pieno viso. È uno di quei racconti che ti fanno dire ad alta voce, più di una volta:
“Ma che diavolo sto leggendo?!?”

Ed è proprio questo che lo rende così speciale.

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